Ieri al mercato bisettimanale di Vigevano (Pavia) vendevano indumenti a 50 centesimi l’uno. Una montagna di magliette, camicie, pantaloni e gonne di tutte le taglie e le fogge al prezzo di mezzo caffè. Alla faccia dell’inflazione e alla tanto declamata circolarità. Anche con il “bonus rammendo” del governo francese è impensabile che uno si metta a rammendare o cambiare un bottone. Anche un lavaggio costa di più. Alla fine dell’estate quindi tonnellate di questi tessuti finiranno nei cassonetti di riciclaggio o semplicemente in discarica.
Siccome non credevo ai miei occhi, anche io mi sono messa a rovistare e ho acquistato un paio di jeans firmati Ad’oro (sì, con l’accento), lunghezza tre quarti, a vita bassa, quindi fuori moda, ma che mi calzano bene. Ho pagato con una monetina da 50 centesimi e mi sono sentita subito in colpa. L’etichetta, in inglese, informa che sono fatti di cotone per il 97% e che sono “imported“, senza specificare da dove. Facile immaginare, Bangladesh molto probabilmente, dove la fast fashion impiega milioni di sartine a uno stipendio mensile che a Milano non basterebbe per un paio di apericena. Buon per i Paesi asiatici ovviamente perché così danno occupazione. Tanto l’industria tessile europea è talmente azzerata che se decidessimo di chiudere le frontiere all’importazione di abbigliamento saremmo costretti ad andare in giro nudi. Ma questo è un altro discorso.
Leggo che ogni anno si producono nel mondo 150 miliardi di capi di abbigliamento e che gli europei ne buttano due milioni di tonnellate (documentario Textile Montain, 2020) con enormi conseguenze dal punto di vista ambientale e anche sociale, come scrivevo prima. Il fenomeno è super noto e ci sono anche dei tentativi di porre dei paletti alle industrie dell’ultra fashion costringendole ad assumersi la responsabilità di controllare le filiere per evitare inquinamento e sfruttamento dei lavoratori. In Francia il “Fonds Réparation Textile“, che sarà disponibile da ottobre e che prevede uno sconto da 6 a 25 euro su riparazioni in sartoria e calzoleria, è una bella cosa, ma dubito che possa convenire quando si deve far rammendare un vestito pagato pochi euro.
Pensavo che l’aumento dei costi di trasporto e materie prime avrebbe colpito anche la moda “usa e getta”, ma non sembra questa la tendenza. Forse sui mercati stanno arrivando i “fondi di magazini” oppure sono abiti usati. Sarei ben contenta di scoprire che i miei jeans da 50 centesimi sono di seconda mano, ma non ci credo perchè non hanno alcun segno di usura. Chissà quanto hanno viaggiato, mi chiedo, e anche quanto li ha pagati l’ambulante. Probabilmente li avrà comprati “a peso” da qualche grande magazzino che voleva svuotare gli scaffali. Meglio negli armadi che in un cassonetto, si potrebbe replicare, in fondo anche il mercato è una casella della circolarità, probabilmente l’ultima prima della discarica.