Quello che non e’ riuscita a fare Greta Thunberg oppure la Ever Given nello stretto di Suez, lo sta facendo la crisi della “catena di approvigionamento mondiale”, meglio nota come Global Supply Chain. Cominciata con la prima ondata della pandemia, si e’ aggravata lo scorso anno e ora – anche se non se ne parla troppo – sta diventando lo spettro mondiale di coloro che credono nel 2022 come anno della ripresa postCovid.
Il commercio internazionale avviene per la maggior parte via mare. Il 90% di tutto cio’ che vedete nella stanza ha viaggiato su una nave, scrive Rose George, autrice di Ninety Percent of Everything: Inside Shipping, the Invisible Industry That Puts Clothes on Your Back, Gas in Your Car, and Food on Your Plate (2013). Questa gigantesca corrente oceanica di container che va dall’Asia agli Stati Uniti e all’Europa non scorre piu’ come prima. I motivi sono molteplici, ma in realta’ nessuno li ha capiti. L’unica certezza che si ha sono le conseguenze di questo intasamento del trasporto marittimo e cioe’ incremento dei costi di spedizioni, scarsita’ delle merci, come i semiconduttori e materie prime e loro conseguente rincaro, blocco delle filiere produttive, eccetera eccetera. E’ la dimostrazione della teoria del caos, “Puo’ un battito d’ali di una farfalla in Brasile provocare un uragano in Texax?” (Edward Lorenz, 1963).
Il costo di un container dalla Cina e’ aumentato di due o tre volte in un anno, i tempi di attesa per la consegna di automobili e tutta la miriade di prodotti che contengono componenti elettronici si sono allungati, nei negozi cominciano a scarseggiare alcune merci o parti di ricambio, frutta e verdura e’ piu’ cara perche’ gli agricoltori devono sborsare di piu’ per comprare la plastica delle serre e degli impianti di irrigazione. L’ultima che ho sentito in una trasmissione di Radio RaDue, Decanter, che si occupa di enogastronomia, e’ che le manca il vetro per imbottigliare il vino. Le aziende vinicole hanno le botti piene ma non possono vendere il vino perche’ non hanno bottiglie, e neppure tappi ed etichette.
Per anni la nostra societa’ basata sui consumi e’ andata allegramente avanti grazie a una catena di approvigionamento marittimo, praticamente “invisibile’ e molto, ma molto conveniente perche’ permetteva di vendere in tutto il pianeta i prodotti fabbricati a basso costo in Asia. Quante volte mi sono chiesta “come e’ possibile che una T-shirt made in Bangladesh costi di meno che una prodotta a un chilometro dal posto dove vivo?”. Siamo andati avanti un po’ cosi’, adesso a quanto pare non e’ piu’ sostenibile. Ci viene presentato il conto. Il documentario “Freightened” (2018) lo sosteneva gia’ in epoca preCovid.
Il think tank Ispi pone il Global Supply Crunch come una delle piaghe del 2022 in un articolo di dicembre (Economy: The New Shortage?). Gli autori, Roger W. Ferguson Jr e Upamanyu Lahiri, lo definiscono come una “sistemic issue’, cioe’ un problema che rischia di persistere alla crisi sanitaria. Le conseguenze sono pesanti, dal punto di vista dell’inflazione che gia’ sperimentiamo oggi e sul caro bollette del gas e luce. Ma come in tutte le crisi, ci sono anche opportunita’. La prima e’ quella di diminuire la nostra dipendenza dalle merci asiatiche, abbassare i livelli di consumo in generale, produrre meno rifiuti, riciclare e riparare se possibile invece di gettare in discarica. Meno emissioni di CO2 prodotti dai cargo e meno container dispersi in mare.
Autrice di un reportage di viaggio: “Verso le Indie” realizzato su una portacontainer francese dalla Francia all’Oman (2015)