Da diversi mesi non compro più abiti. Praticamente ogni giorno mi “rifornisco” ai cassonetti della spazzatura. Dove mi trovo, in Spagna, la gente ha imparato a mettere sacchi pieni di abiti e calzature usate a fianco dei bidoni o sul marciapiede così che tutti si possano servire. La quantità di indumenti prodotti dalla cosidetta ‘ultra fast fashion‘ è stellare. ormai non basta più il nostro pianeta. Ho letto che ogni secondo nel mondo viene buttato o abbandonato un camion pieno di tessuti. “Tessuti” che non sono più tali, ma delle bombe chimiche che inquinano acqua e suolo. La fast fashion è responsabile delle microplastiche negli oceani. E poi c’è l’aspetto sociale, lo sfruttamento neocoloniale delle docili manodopere low cost asiatiche, il lavoro minorile e il ricatto delle multinazionali sulle economie “export oriented” dei Paesi più poveri .
Ma qualcosa si sta muovendo. Dal primo gennaio in Germania è entrata in vigore la “Supply Chain Due Diligence Act” (LkSG), una legge approvata dal Parlamento tedesco l’11 giugno 2021 che obbliga le grandi aziende della moda operanti in Germania a rispettare obblighi sociali e ambientali lungo tutto la loro catena di approvigionamento dei prodotti. Il che significa che saranno legalmente responsabili se un loro sub-fornitore in Bangladesh, per esempio, viola i diritti dei lavoratori oppure se una azienda in India che produce per loro inquina un corso d’acqua.
Certo, sembra difficile da attuare e far rispettare, spesso le aziende del fast fashion non conoscono neppure chi produce per loro, si forma una lunga catena di subfornitori o addirittura famiglie che lavorano in casa nei posti più remoti dell’Asia. Ma grazie a questa legge le “vittime” potranno fare causa alle aziende della fast fashion che hanno sede in Germania e ottenere giustizia.
Dopo i disastri del Rana Plaza di Dacca (2013, 1.134 morti) e un anno prima Ali Enterprise di Karachi (260 morti) si è capito che occorre intervenire sul problema a monte. Perchè Paesi come Bangladesh o Pakistan. che impiegano milioni di persone nell’industria tessile da esportare non sono in grado (e manco lo vogliono) di rafforzare la loro legislazione per proteggere lavoratori e ambiente. Tocca al Primo Mondo, tocca ai grandi marchi della moda, Italia compresa dove l’argomento è ancora tabù.
Nel 2013, sei mesi dopo la tragedia del Rana Plaza, andai in Bangladesh per un reportage sulla fast fashion ( http://coggiolaarticoli.blogspot.com/search?q=dacca). La Radio Svizzera Italiana lo diffuse nel suo notiziario, il quotidiano La Stampa non lo pubblicò mai.
Adesso non sarebbe più così. Negli ultimi anni, per fortuna, c’è una nuova consapevolezza sulla sostenibilità della fast fashion. Ci si è accorti che può essere nociva anche per chi la indossa e non solo ai poveracci che la producono. Il marchio online cinese Shein è diventato il simbolo di tutti gli orrori della moda ultrarapida, come dimostrano i rapporti di Greenpeace sulla presenza di sostenza chimiche tossiche nei loro abiti pubblicizzati su Tik Tok e sulle condizioni di lavoro, (documentario di Channel 4, “Inside the Shain Machine: UNTOLD”). Dopo anni di silenzio e di censura si si accorge (finalmente) che la fast fashion sta distruggendo il pianeta.